giovedì 14 giugno 2012

Intervista sulla missione ecclesiale e diplomatica in Bosnia-Erzegovina


Dal testo dell'intervista rilasciata da Mons. D'errico a Večernji list, poco prima della nomina a Nunzio Apostolico in Croazia, emergono temi e prospettive di grande rilevanza per la Chiesa e per lo Stato. La sua opera ecclesiale e diplomatica ha avuto significati effetti e risonanze che sono stati ben rappresentati, insieme con le onorifecenze e i prestigiosi riconoscimenti ricevuti, nel libro scritto in croato IN HONOREM pubblicato dallo stesso giornale. Un libro ed un'esperienza umana che sono stati accolti con entusiasmo dalla cultura e dalle popolazioni dell'area dei Balcani, grazie all'esemplarità e agli orientamenti offerti nella direzione del dialogo interreligioso, della pace e della testimonianza dei valori cristiani ed umanistici.
Leggiamo di seguito direttamente il testo italiano originale dell'intervista.




Intervista al Nunzio Apostolico
Arcivescovo Alessandro D’Errico
(Sarajevo, 11 febbraio 2012)


Dopo sei anni di permanenza qui, quando Lei pensa a tutto ciò che ha fatto come Nunzio Apostolico in Bosnia ed Erzegovina e in Montenegro, quali avvenimenti ritiene che siano stati i più importanti?

Mi consenta di fare una premessa. Spesso mi viene domandato quale evento ritengo il più importante di questi anni di missione in Bosnia ed Erzegovina e in Montenegro. La risposta non è facile, perché sono stati anni molto intensi. Guardando indietro, spesso sento il dovere cristiano di rendere grazie a Dio per la cordiale accoglienza che ho trovato, a tutti i livelli, e per il contributo di servizio che ho potuto dare sia alla Chiesa in BiH e in Montenegro, sia alle relazioni di questi popoli con la Santa Sede.

Penso che alcuni eventi siano ormai consegnati alla storia della Chiesa in BiH e in Montenegro: le nomine dei Vescovi, l’Accordo di Base con la BiH, l’Accordo per l’erezione dell’Ordinariato Militare, l’Accordo di Base con il Montenegro, la Commissione Internazionale sul fenomeno di Medjugorje, le Visite del Cardinale Bertone e dell’Arcivescovo Mamberti, le Visite in Vaticano delle più alte autorità di questi Paesi, i lavori della Commissione Mista per l’applicazione dell’Accordo di Base.

Accanto a questi avvenimenti di rilevanza storica, ce ne sono stati altri meno eclatanti, più discreti, ma altrettanto importanti. Penso in particolare ai contatti che abbiamo stabilito con tante autorità civili e religiose. Ritengo che questo aspetto non sia da trascurare, perché costituisce come il presupposto degli eventi maggiori ai quali ho accennato.

Lei è stato premiato da “Večernji list-BiH con il Večernjakov Pečat, per il Suo contributo al dialogo interreligioso. Come valuta le relazioni tra i leaders delle maggiori confessioni religiose in BiH? E come valuta i rapporti di convivenza dei cattolici con i musulmani e gli ortodossi?

Sono molto grato agli amici di Večernji list, per aver voluto pensare anche a me – per ben due volte – come persona meritevole di una distinzione così ambita come il Večernjakov Pečat. A dire la verità, in entrambe le circostanze rimasi anche un po’ imbarazzato quando me ne fu data comunicazione. Ma alla fine ritenni doveroso accettare, perché pensai che il pečat non era dato tanto alla mia persona, quanto alla missione che la Nunziatura Apostolica cerca di svolgere in BiH, a nome della Santa Sede.

Ebbene, per quanto riguarda le relazioni tra i leaders religiosi, credo che possiamo essere contenti, perché ci sono incontri frequenti e tante iniziative, promosse da diversi gruppi e movimenti, e in primo luogo dal Consiglio Interreligioso. Direi che c’è un sufficiente clima di fiducia. Questo si manifesta non soltanto in occasione delle riunioni del Consiglio Interreligioso, ma anche in diverse circostanze; soprattutto in occasione delle grandi feste di ciascuna tradizione religiosa, quando un po’ tutti partecipano a queste celebrazioni.

Tuttavia, ripeto spesso che bisogna tener presente che questa fiducia reciproca c’è, ma ad alto livello. Però, a livello più popolare, si può costatare facilmente che lì c’è ancora parecchio da fare, e la strada del dialogo interreligioso è ancora lunga.

È ben noto che la Santa Sede segue attentamente l’evolversi della situazione in BiH. Quali sono i motivi di questo interessamento?

, è vero. La Santa Sede ha sempre guardato con molta attenzione alla BiH, sin dalla sua indipendenza. I motivi sono vari. In primo luogo, in termini più generali, direi che la Santa Sede segue il Paese, così come fa in altre aree ove c’è una comunità cattolica. E ciò tanto più che qui c’è una plurisecolare comunità cattolica, ben organizzata, che continua a dare un prezioso contributo anche alla vita civile del Paese.

Insieme a questo, vorrei menzionare che in diverse circostanze le più alte autorità vaticane hanno affermato che la Santa Sede guarda alla BiH con attenzione privilegiata, perché questo Paese costituisce un singolare punto di incontro di civiltà e di religioni. Ciò porta a ricchezza di tradizioni e di cultura. Ma può portare anche a notevoli tensioni: come in epoca recente, quando gli eventi della guerra causarono tanta distruzione e grandi sofferenze; o come nei mesi scorsi, per la complessa situazione politica che si era creata dopo le elezioni del mese di ottobre 2010.
L’attenzione privilegiata spiega perché le formali relazioni diplomatiche con la BiH furono stabilite subito, già nel 1992. Poi venne la guerra, e con essa tutta l’intensa attività di Papa Giovanni Paolo II in favore della BiH. Dopo la guerra, la Santa Sede ha continuato a dare il proprio contributo per la costruzione di una pace giusta, e per lo sviluppo di queste comunità. In questo contesto si collocano le due Visite di Giovanni Paolo II e quelle di alti dignitari vaticani. In questa luce si possono capire anche l’Accordo di Base (2006-2007), l’Accordo per l’Ordinariato Militare (2010) e l’Intesa tra l’Università di Sarajevo e la nostra Facoltà di Teologia Cattolica (2011).

Dopo il recente Messaggio del Cardinale Bertone ai Vescovi della regione croata, è evidente che il Vaticano è parecchio preoccupato per la situazione del popolo croato in BiH …

Nell’interessamento generale della Santa Sede per la BiH, mi pare ovvio che essa segua con particolare attenzione il popolo croato, che in grande maggioranza è cattolico. Ebbene, sì, i Superiori della Santa Sede sono preoccupati per il futuro della presenza cattolica in BiH. La situazione del popolo croato mi pare molto delicata, a motivo della configurazione istituzionale del Paese venuta dopo la guerra, e per il fatto che il popolo croato è il meno numeroso tra i popoli costituitivi. Inoltre, i dati statistici raccolti ogni anno dalle Curie diocesane documentano un fenomeno allarmante: c’è un costante calo demografico; e anzi in parecchie parrocchie sono rimasti solo pochi anziani. Qui non è solo questione della perdita di vite umane avvenuta durante la guerra; o del mancato ritorno dei profughi. C’è anche un inarrestabile esodo migratorio, soprattutto di giovani che non trovano lavoro e cercano altrove possibilità di impiego. E c’è pure un documentato calo del tasso di natalità: nel senso che il numero annuale dei morti diventa sempre maggiore rispetto a quello dei nati.

Sicché, se si continua di questo passo, in alcune aree si rischia di veder scomparire del tutto la presenza croata tra qualche anno. Questo è il motivo che ha indotto il Cardinale Bertone a scrivere – a nome del Santo Padre – il recente Messaggio ai Vescovi della regione croata circa il futuro della fede cattolica in BiH.

Che cosa si può fare per rimediare a questo calo demografico?

Nel suo Messaggio, il Cardinale Bertone ha indicato parecchi punti di riflessione e di intervento. Anzitutto bisognerebbe combattere lo scoraggiamento (che serpeggia sempre di più e spinge a cercare altrove più facili soluzioni), e la rassegnazione (che rende alcuni - tra coloro che restano - pressoché inoperosi, aspettando che altri risolvano i problemi). Al tempo stesso, si dovrebbe incoraggiare il personale coinvolgimento di tutti nella questione della sopravvivenza, e in particolare nella rivendicazione di un’uguaglianza costituzionale effettiva del popolo croato rispetto agli altri due popoli costitutivi.

Poi, sembra necessario concentrarsi sulle condizioni di vita di chi è rimasto, e in particolare dei giovani, con la speranza di frenare l’esodo migratorio, che non si riesce ad arrestare. Ciò riguarda la casa, le condizioni di sicurezza, infrastrutture adeguate per la vita quotidiana. Ma riguarda soprattutto la creazione di posti di lavoro, per consentire ai giovani di restare in BiH, com’ è nelle loro aspirazioni.

Inoltre, è opportuno continuare a lavorare, a tutti i livelli, per ottenere che si creino finalmente condizioni favorevoli per il tanto desiderato ritorno dei profughi.

E circa la questione del tasso di natalità?

In seno alla Conferenza Episcopale più volte abbiamo convenuto che dovrebbe essere intensificata la presentazione della dottrina della Chiesa sulla famiglia e sul matrimonio (perché si diffonde sempre di più la tendenza tra i giovani a non sposarsi); e quella sulla vita e sulla natalità (perché ormai è di moda avere uno o al massimo due figli). In particolare, sembra urgente richiamare ad un senso minimo di fiducia in Dio, che ci vuole Suoi collaboratori nell’opera della creazione, attraverso la trasmissione della vita.

Molti sono convinti che la causa principale di questa situazione difficile del popolo croato sia da cercare nell’Accordo di Dayton…

Certamente l’accordo di Dayton è tra le cause principali, perché - con la configurazione della BiH in due Entità - di fatto ha causato una divisione del Paese su base etnica, privilegiando i serbi nella Republika Srpska, e i bosgnacchi nella Federazione. Purtroppo, la situazione è diventata ancora più difficile nel mese di marzo dello scorso anno, con la formazione del Governo della Federazione senza la partecipazione dei legittimi rappresentanti del popolo croato.

Tuttavia, sulla valutazione di Dayton sarei più sfumato rispetto alle opinioni che spesso vengono espresse da illustri personalità croate. E cioè, personalmente ritengo che all’Accordo di Dayton bisogna riconoscere almeno il merito di aver fermato la guerra. Era un punto di inizio. A mio modo di vedere, il problema è altrove, e sta nel fatto che – per quanto sia stato fatto parecchio durante questi anni, in termini di ricostruzione materiale e morale – non si è trovato il necessario consenso per continuare lungo la strada aperta a Dayton. E così, nell’esperienza di ogni giorno purtroppo dobbiamo costatare quanto resti ancora da fare, per portare a compimento l’opera iniziata a Dayton. In altre parole, mi pare che con l’Accordo di Dayton si riuscì a fermare la guerra; ma poi non si è pensato abbastanza a come costruire la pace. O meglio, a come costruire una pace giusta: una pace che garantisca ai cittadini ed ai popoli costitutivi di vivere in armonia sociale, e di avere un ruolo nel Paese al meglio delle loro possibilità.

Questo potrebbe avvenire attraverso le riforme costituzionali …

Questa dovrebbe essere una priorità per il Governo da poco formato. Mi auguro che si riesca a trovare soluzioni che assicurino i giusti equilibri ed i meccanismi necessari per garantire eguali diritti e doveri per tutti i cittadini e per i popoli costitutivi.

Tuttavia, vorrei aggiungere una cosa con molta franchezza: le riforme costituzionali oggi mi sembrano al limite dell’utopia, se prima non si riesce a mettere da parte il passato, e a guardare di più al futuro di questi popoli e di questi cittadini. Mi rendo conto che questo non è facile, perché gli eventi del recente passato - quelli della guerra - sono ancora vivi nella memoria dei singoli e delle comunità. Questa è la grande sfida. E mi sforzo di ripetere, a tutti senza differenze, che bisogna anzitutto “purificare la memoria”. Bisognerebbe avere il coraggio e la determinazione di chiudere con il passato della guerra, e di mettere da parte i pregiudizi e i sospetti, che ancora persistono nelle relazioni tra i singoli e tra i popoli costitutivi.

La Chiesa cattolica in BiH ha affrontato molte sfide durante e dopo la guerra. Purtroppo ci sono state tante debolezze umane, per le quali sono arrivate anche divisioni tra i Sacerdoti, che si sono poi trasmesse ai fedeli. Non pensa Lei che queste tensioni dovevano essere risolte all’interno delle mura della Chiesa?

A scanso di equivoci, mi lasci dire anzitutto che apprezzo molto lo zelo, la preparazione e il dinamismo pastorale dei nostri Sacerdoti e dei nostri Religiosi. Tuttavia, sin dal mio arrivo in BiH ho dovuto costatare come in un recente passato qualche cosa non ha funzionato bene nelle loro relazioni. Perciò, non mi ha meravigliato che tra le linee prioritarie tracciate dalla Santa Sede per la Chiesa in BiH (di cui ho potuto parlare personalmente con il Santo Padre), c’era anche questa: nelle presenti circostanze si vede la necessità di una maggiore intesa e di una migliore collaborazione tra strutture e personale diocesani, e strutture e personale religiosi, specialmente in alcune aree. In altre parole, si vede l’urgenza di chiarire le difficoltà che ancora sussistono, e rafforzare il desiderio di lavorare insieme per l’unica Chiesa di Cristo, in questa Chiesa concreta.

In questi anni ho cercato di adoperarmi lungo due direttrici. In primo luogo, ho cercato di richiamare a più riprese che la storia della Chiesa in BiH ha una nota specifica che tutti devono serenamente riconoscere. Qui in vari secoli e in tempi difficili la Chiesa ha potuto continuare la sua presenza e la sua missione soprattutto grazie ai Francescani, che nel periodo ottomano seppero trovare la maniera di convivere con le autorità del tempo. La loro storia è ricca di amore per la Chiesa e per queste terre, fino al supremo sacrificio di sé. Direi che è grazie soprattutto ai Francescani che la fiaccola della fede cattolica è rimasta viva in BiH. Ad essi bisogna essere molto grati per il gran bene che hanno fatto e continuano a fare.

Quale è l’altra direttrice ?

L’altra direttrice è stata di trasmettere fedelmente – ai Sacerdoti diocesani e ai Religiosi – il desiderio dei Superiori della Santa Sede, e anzi del Santo Padre in persona, che si chiariscano i motivi di tensione, e si dia insieme il proprio contributo per la crescita di questa Chiesa, nonostante le incomprensioni che pur ci sono state, e le difficoltà che ancora sussistono, per lo più ereditate del passato.

Personalmente sono convinto che nella Chiesa in BiH ci sono due grandi motori, che devono lavorare insieme: quello dei Sacerdoti secolari e delle Istituzioni diocesane da una parte, e quello dei Religiosi e delle Religiose dall’altra. Guardando al futuro, per quello che ho potuto sperimentare in questi anni, credo che non manca la buona volontà di risolvere i problemi. Perciò sono fiducioso che anche questo aspetto ecclesiale meno positivo sarà risolto prima o poi, con l’aiuto di Dio, e con l’impegno di fedeltà alla Chiesa di tutte le persone interessate.

Non posso non notare che in soli due anni sono stati nominati quattro nuovi Vescovi dalla BiH. Con ciò il Vaticano ha voluto mandare un messaggio, o si è trattato solo di necessità pastorali?

Le nomine vescovili avvengono sopratutto in considerazione di necessità pastorali. Ma talvolta intervengono anche altre considerazioni, nel contesto delle sfide concrete che le comunità cattoliche, o i Paesi in cui esse sono inserite, si trovano ad affrontare. Sotto questo aspetto le nomine vescovili di questi due ultimi anni si possono leggere da due altre prospettive. La prima è quella dell’incoraggiamento e del sostegno della Santa Sede per la Chiesa in BiH, nel momento delicato che sta attraversando, come ho menzionato pocanzi. Inoltre – specialmente per la nomina del primo Vescovo Ordinario Militare – si può aggiungere una prospettiva internazionalistica: quella del riconoscimento della BiH come “categoria permanente”, e non “provvisoria” come vorrebbero alcuni.

All’inizio della conversazione, Le ho chiesto di indicare l’evento più significativo di questi anni nelle relazioni tra la Santa Sede e la Chiesa in BiH. Certamente uno di questi è l’organizzazione della Commissione Internazionale su Medjugorje. So che il lavoro della Commissione è confidenziale; ma si può dire che, con l’istituzione della Commissione, Medjugorje è diventata un “distretto ecclesiastico”?

Come ho già detto, concordo con Lei che l’istituzione della Commissione Internazionale della Santa Sede su Medjugorje è tra gli eventi più significativi degli anni del mio servizio in BiH. Nei miei incontri con il Santo Padre, ho avuto modo di costatare personalmente come Egli conosce bene il fenomeno di Medjugorje, anche perché, prima di diventare Papa, è stato per molti anni Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, incaricata di seguire la questione; e come Egli rimaneva perplesso dinanzi ai giudizi contrastanti che aveva raccolto su questo fenomeno. Proprio per questo motivo Egli ha voluto formare la Commissione, chiamando a farne parte personalità altamente qualificate, da varie parti del mondo.

Tuttavia, mi pare opportuno chiarire una cosa: questa è una Commissione di studio – o di inchiesta, come si dice nel linguaggio tecnico della Congregazione per la Dottrina della Fede – senza intaccare la giurisdizione del Vescovo di Mostar sulla parrocchia di Medjugorje.

Nel mese di novembre scorso, ho avuto un altro lungo incontro di lavoro con il Cardinale Ruini, Presidente della Commissione. Ho ammirato la chiarezza dell’agenda e la serietà con cui la Commissione sta svolgendo il suo compito. Sono certo che quando i lavori saranno conclusi, ne verrà un gran bene per tutti.

A scorrere il Suo curriculum, la prima impressione è che Lei ha potuto maturare una vasta esperienza in varie parti del mondo, prima di arrivare in BiH (Thailandia, Laos, Malesia, Singapore, Brasile, Grecia, Italia, Polonia, Pakistan ed Afghanistan). Ci piacerebbe sapere se quelle esperienze sono state di qualche utilità nel Suo servizio in Bosnia ed Erzegovina.

Quando arrivai a Sarajevo sei anni fa, nei primi incontri protocollari con le più alte autorità dello Stato, parecchi mi fecero notare che il servizio che avevo prestato in precedenza sembrava quasi una ben progettata programmazione per la mia attuale missione. Evidentemente si trattava solo di un modo di dire. Tuttavia è vero che, grazie a Dio e alla fiducia dei Superiori, sono stato in Paesi con popolazione a grande maggioranza islamica (Pakistan, Afghanistan, Malesia), in altri tradizionalmente di fede ortodossa (Grecia), in altri a grande maggioranza cattolica (Brasile, Italia, Polonia). Oggi, a distanza di sei anni, sono convinto che ciò è stato molto utile per capire la complessità della BiH, nelle sue componenti etniche e religiose.

Inoltre, direi che gli anni vissuti presso le Nunziature Apostoliche in Italia e in Polonia mi hanno dato una buona esperienza nel campo delle relazioni concordatarie. A quelle esperienze ho fatto ricorso spesso durante i negoziati che abbiamo condotto con le autorità di BiH e di Montenegro, per la stipulazione dei nostri Accordi.

Eccellenza, il Suo curriculum ecclesiale e diplomatico è davvero interessante. Passando ad un altro aspetto della Sua personalità, ricorda Lei il momento in cui ha deciso di diventare Sacerdote?

La decisione di diventare Sacerdote l’ho maturata un po’ per volta, in un lungo processo di discernimento vocazionale, che è durato vari anni. Ma ricordo bene il momento in cui ho cominciato a parlarne per la prima volta. Avevo solo nove anni. Un giorno, come accade spesso ai ragazzi di quell’età, con mio fratello giocavamo a dirci cosa avremmo fatto da grandi. Lui diceva una professione, io ne dicevo un’altra. Ad un certo punto, sentii dentro di me una forte inclinazione per la vita sacerdotale, che mi fece mettere da parte tutto il resto. E di slancio corsi a dirlo a mia madre, di venerata memoria, la quale a sua volta trasmise questo mio desiderio a papà (anch’egli volato al cielo due anni fa).
I miei genitori erano persone semplici, di grande fede. Rivisitando la memoria di quel giorno, posso dire con certezza che essi furono molto contenti di quel desiderio da me espresso. Tuttavia, com’è naturale, vollero aiutarmi nei primi passi del discernimento vocazionale … anche assumendosi il ruolo di avvocato del diavolo. E così, anche su consiglio di bravi e santi Sacerdoti, decisero che non frequentassi più la scuola tenuta da Religiose, ove ero andato fin’allora, e mi iscrissero ad una scuola statale. Successivamente, su mia insistenza, passai al Seminario Minore della nostra diocesi (Aversa), e poi al Seminario di Posillipo-Napoli, annesso alla Facoltà di Teologia. Fui ordinato sacerdote il 24 marzo 1974: fu un gran giorno, per il quale non cesso di rendere grazie a Dio.

E poi, dove ha svolto il Suo ministero?

Dopo pochi mesi di ministero sacerdotale in parrocchia, il Vescovo mi disse che ero stato segnalato alla Santa Sede per il servizio diplomatico; e mi chiese se accettavo di andare alla Pontificia Accademia Ecclesiastica (in Roma), che è l’istituzione che prepara i futuri diplomatici della Santa Sede. Era una strada a cui non avevo mai pensato. Dopo qualche giorno di riflessione, risposi che accettavo, in spirito di obbedienza e di servizio ecclesiale; ma aggiunsi che avrebbe dovuto aver comprensione per me, qualora avessi costatato la mia inadeguatezza per questo servizio.

Ricordo pure che alcuni Professori della Facoltà di Teologia (tenuta dei Padri Gesuiti) e della Facoltà statale di Filosofia, cercarono di distogliermi dalla “via romana”, proponendomi un ruolo di Docente nelle rispettive Facoltà. Pur tra mille incertezze, optai per l’obbedienza al Vescovo, e alla Santa Sede che mi aveva chiamato. Il resto lo sapete già, dal mio curriculum.

Quali sono stati i momenti più belli del Suo ministero sacerdotale?

Non mi è facile rispondere a questa domanda, perché nei Paesi ove sono stato, ho avuto modo anche di fare tante belle esperienze di ministero sacerdotale. A grandi linee, posso dire che conservo un gran ricordo del servizio di pastorale giovanile a Bangkok e a Brasilia; del gruppo ecumenico che animavo ad Atene, insieme ad un Protopresbitero ortodosso (con il quale sono ancora in corrispondenza); delle attività del Centro culturale dei Padri Barnabiti a Varsavia; dei corsi di preparazione al matrimonio, che tenevo a Roma; delle Associazioni e dei Movimenti laicali che ho seguito nella mia città natale; del ruolo di quasi-parrocchia svolto dalla Cappella della Nunziatura Apostolica in Pakistan, nelle drammatiche circostanze dei frequenti attentati contro le comunità cristiane, dopo l’undici settembre 2001.

Quando lei arriva nella Sua città natale, a Frattamaggiore, per i Suoi concittadini Lei è un semplice cittadino da “tu” o un ecclesiastico eminente, con cui loro si rapportano con il “Lei”?

Credo che per la maggioranza – quelli che mi conoscono meglio o da più tempo – resto soprattutto un amico, che si rivede volentieri. Ciò lo notò anche il Cardinale Puljić quando venne a Fratta per la celebrazione del decimo anniversario della mia Ordinazione Episcopale. Ricordo che Sua Eminenza fu impressionato dalla cordialità e dalla vivacità dell’amicizia che mi veniva manifestata, con il calore relazionale tipico di noi napoletani.
Ovviamente non mancano quelli che si rapportano a me con un certo rispetto riverenziale. Per quel che mi riguarda, preferisco di gran lunga coloro che mi considerano un “amico”, perché mi consentono di vivere più intensamente i vincoli con la terra natale, alla quale sono molto legato.

Può spiegarci i simboli del Suo stemma episcopale?

E’ molto semplice. Anzitutto un Vescovo porta nel suo stemma un cappello verde, che è segno della dignità vescovile. Poi ci sono a destra e a sinistra dei fiocchi, che per un Arcivescovo sono disposti in quattro file (per un Cardinale in cinque, e per un Vescovo in tre).

Come motto, ho scelto: "VENI SANCTE SPIRITUS" (Vieni Spirito Santo) per due motivi. Il primo: perché la mia elezione all’episcopato avvenne nel 1998, e cioè durante l’anno che Papa Giovanni Paolo II aveva consacrato allo Spirito Santo, nel cammino di preparazione al terzo millennio. Il secondo motivo è legato alla consapevolezza che l’episcopato è un dono di Dio, al quale gli eletti devono dare una adesione incondizionata, nonostante i loro limiti. Essendo io ben cosciente dei miei limiti, ritengo fondamentale pregare ed invitare gli altri alla preghiera: una preghiera rivolta soprattutto allo Spirito Santo, che è datore di vita e anima interna della Chiesa.

Lo scudo ha, come tema dominante, la parte alta ove c’è lo Spirito Santo simbolizzato da una colomba, che richiama il motto. Poi c’è un campo composto da una fascia rossa con una palma: il rosso e la palma sono segni di martirio. Questo perché volevo ricordare la mia origine: vengo da una città e da una diocesi che hanno per patroni un martire: S. Sossio per Frattamaggiore e S. Paolo per Aversa.

Nel campo in basso a sinistra di chi guarda c’è un rimando alla parrocchia di appartenenza, che è quella di Maria SS.ma del Carmine in S. Ciro. S. Ciro era un medico e, come riferimento alla sua professione, ho preferito un calice con un serpente, anziché il simbolo di Esculapio, che poteva risultare troppo "pagano".

Sull’ultimo campo a destra, c’è una "M" che sta per MARIA, perché quando Giovanni Paolo II mi chiamò all’episcopato ero in servizio alla Nunziatura Apostolica in Polonia, che - come sapete - è un Paese consacrato alla Madonna di Czhęstochowa. La "M" dice pure un riferimento a Giovanni Paolo II, che mi ha elevato all’episcopato. E ciò perché anche il Papa portava una "M" nel suo stemma.





Nessun commento:

Posta un commento