mercoledì 11 giugno 2014

La Conferenza sulla Diplomazia Pontificia al Croatian Diplomatic Club di Zagabria

In occasione della Giornata della Diplomazia (7 Giugno 2014) l'Ambasciatore Sergej Ivan Morsan, Presidente del Croatian Diplomatic Club di Zagabria, ha invitato S.E. Alessandro D'Errico Nunzio Apostolico in Croazia a tenere una Conferenza sulla Diplomazia Pontificia.
Il Club ha una storia importante che lo lega alle scelte operate fin dal 1990 dal Ministero degli Affari Esteri per dotare la Croazia di una nuova Diplomazia; esso ha anche numerosi e prestigiosi associati. 
Notizie approfondite su questa storia e sulle attività del Club si possono leggere in inglese sul portale ufficiale in rete (vedi questapagina).

Accogliendo lo stimato invito il giorno 10 Giugno 2014 il Nunzio Apostolico in Croazia ha svolto il suo discorso trattando il tema: “Questioni di Diplomazia Pontificia”.
La Conferenza si è tenuta con grande cerimonia nella Sede del Club Diplomatico zagabrese alla presenza di numerosi Ambasciatori, membri del Corpo Diplomatico accreditati presso la Repubblica di Croazia, di Docenti universitari, di Personalità onorarie, di Associati e del Rettore dell'Università Cattolica Dott. Zeljko Tanjič.


I commenti e i brani pubblicati dai media in rete che riguardano la Conferenza del Nunzio, e le Tematiche trattate circa la Storia della Diplomazia, e circa il Dialogo la Pace e gli Orientamenti della Santa Sede, si stanno moltiplicando in tempo reale ed essi sono proposti dai principale portali cattolici e laici.

Il migliore commento appare comunque quello che emerge dalla lettura diretta del testo della Conferenza predisposto in italiano personalmente e magistralmente da S. E. Alessandro D'Errico. Lo presentiamo di seguito con la segnalazione dei primi link incontrati nella ricerca in rete.


QUESTIONI DI DIPLOMAZIA PONTIFICIA 
Conferenza del Nunzio Apostolico
Arcivescovo Alessandro D’Errico
al Croatian Diplomatic Club

 (Zagreb, 10 giugno 2014)


Signor Presidente del Club Diplomatico,
Signori Ambasciatori,
Signori e Signore,

Sono molto grato all’Ambasciatore Sergej Ivan Morsan, Presidente del Croatian Diplomatic Club, per l’invito che mi ha rivolto a tenere questa Conferenza per i membri e gli amici del CDC, in occasione della Giornata della Diplomazia Croata, che si è celebrata il 7 giugno scorso. L’ho accolto volentieri, per l’alta considerazione che ho del Club, ed anche perché il 7 giugno costituisce una data importante pure nelle relazioni tra la Santa Sede e la Croazia. Proprio in quella data, nel lontano 879, il Papa Giovanni VIII scrisse al Principe Branimir, inviandogli la sua benedizione; e ciò - come sapete - viene considerato come il primo riconoscimento della Croazia nel medioevo. 

Articolerò la mia esposizione in due parti. Nella prima vorrei presentare a grandi linee alcuni principi che guidano la diplomazia vaticana; e poi venire più specificamente alle nostre attività diplomatiche in Croazia.

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Prima però, come premessa, mi sembra importante chiarire cosa s’intende per Santa Sede e per Stato della Città del Vaticano. Nel diritto e nella prassi internazionale, per Santa Sede s’intende il Governo Centrale della Chiesa Cattolica, al quale viene riconosciuta sovranità piena e assoluta nella sua missione spirituale e perciò il diritto di legazione attivo e passivo, come a uno Stato. Attualmente la Santa Sede ha relazioni diplomatiche con 180 Paesi (l’ultimo ad allacciare relazioni ufficiali è stato il Sudan del Sud, il 22 febbraio 2013). Ad essi bisogna aggiungere l’Unione Europea e il Sovrano Ordine di Malta. Poi c’è una Missione Speciale presso l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. A livello multilaterale, la Santa Sede è presente presso una trentina di Organizzazioni Internazionali e Organizzazioni Regionali. Ottantuno dei Paesi che hanno rapporti diplomatici con la Santa Sede hanno una propria Ambasciata a Roma.

Quali sono i motivi per giustificare questo riconoscimento, che attual-mente è unico nella storia del diritto internazionale e diplomatico? Ci sono diverse teorie internazionalistiche, che non mi è possibile esporre qui per limiti di tempo. Tuttavia, vorrei limitarmi a menzionare un documento fondamentale a questo riguardo; e cioè, il Trattato Lateranense con l’Italia, del 1929. Con esso - dopo la scomparsa degli Stati Pontifici - fu riconosciuta la sovranità piena e assoluta del Papa nella sua missione spirituale (come a un Capo di Stato); e al tempo stesso fu riconosciuta anche la sua potestà sovrana su un piccolo territorio di Roma, intorno al colle Vaticano. Nacque così lo Stato della Città del Vaticano (SCV). Perciò, per SCV intendiamo il piccolo territorio (44 ettari) riconosciuto come Stato, per garantire l’indipendenza e la sovranità della Santa Sede, e per facilitare la sua missione spirituale ma anche internazionale.

Allora, chi è il soggetto di diritto internazionale, il soggetto della diplomazia pontificia? La Santa Sede o lo Stato della Città del Vaticano? La risposta è che entrambi sono soggetti di diritto internazionale; e entrambi hanno un unico Sovrano, che è il Papa. Ma lo SCV è certamente atipico nella sua sovranità, perché essa è finalizzata a quella della Santa Sede.

Di conseguenza, dire diplomazia dello SCV o Ambasciata dello SCV è parecchio limitativo. La diplomazia pontificia è diplomazia della Santa Sede; e chi vi parla è un Ambasciatore della Santa Sede. Così pure, il nostro passaporto è della Santa Sede; e nella lista diplomatica di tutti i Paesi con i quali abbiamo relazioni diplomatiche, veniamo sotto il nome “Santa Sede”. 

Tuttavia, direi che è corretto anche parlare di diplomazia vaticana, se per “Vaticano” intendiamo non solo lo SCV, ma una maniera più estesa di intendere la Santa Sede, come autorità morale e spirituale nella Comunità Internazionale.

A conferma di ciò, vorrei ricordare che nella lista dei Paesi pubblicata annualmente dall’ONU, al nome “Santa Sede” è aggiunta una specificazione; e cioè, che all’ONU deve essere usato il nome “Santa Sede”, eccetto tuttavia ciò che riguarda l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni e l’Unione Universale delle Poste, ove bisogna usare il termine SCV.

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Venendo ora ai grandi principi che ispirano la diplomazia pontificia, direi che il primo è questo:

1° principio. La Santa Sede ha piena consapevolezza del suo ruolo singolare nella Comunità Internazionale: si tratta di un’autorità spirituale, morale, non temporale. Un’autorità che viene al Papa dal fatto di essere Capo della Chiesa Cattolica. Spesso i Sommi Pontefici hanno parlato del ruolo della Santa Sede come “esperta in umanità”, “coscienza morale” dell’umanità. Questo è il campo proprio di competenza della Santa Sede: non questioni di interessi economici o militari, né di schieramenti politici.

Certamente ci rendiamo conto che talvolta non è facile partecipare ad assisi di diplomazia multilaterale o a negoziati bilaterali senza una cooperazione economica o militare da offrire in contropartita. Ma crediamo fermamente nella forza delle idee e della ragione. E in ciò siamo incoraggiati dai risultati a volta sorprendenti ottenuti dalla nostra diplomazia disarmata: come nel corso della mediazione tra Argentina e Cile (a partire dal 1979); oppure quando pensiamo a ciò che può essere stato il ruolo avuto dalla Santa Sede - di cui si parla tanto spesso - nel declino dei regimi comunisti del secolo scorso.

Qualche volta è più difficile. E allora c’è un “martirio della pazienza” da esercitare, come diceva il grande Cardinale Agostino Casaroli, che fu il primo Segretario di Stato di Giovanni Paolo II, per molti anni. E con pazienza continuiamo a proporre le nostre idee, e ad attendere tempi migliori.

2° principio. Al centro e alla base della nostra diplomazia poniamo la persona umana, senza differenze di razza, di cultura o di religione; e, di conseguenza, i diritti fondamentali della persona. Per citarne alcuni - i più frequenti nei nostri interventi - il diritto alla vita, all’educazione, alla libertà, alla partecipazione nella vita politica. Particolare importanza diamo alla libertà di coscienza e di religione: ogni persona deve essere libera di esprimersi secondo quanto gli viene ispirato o dettato dalla propria coscienza; e deve essere libera di scegliere e praticare la propria religione, non solo a livello privato, ma anche a livello pubblico e sociale. Perciò, quali che siano i sistemi politici, giuridici o economici, riteniamo che essi dovrebbero porsi al servizio della persona umana e mai “sopra” o “contro” di essa.

3° principio. A livello di aggregazione di gruppi e di popoli, riteniamo che non ci siano modelli stereotipati da offrire. Siamo contrari ad ogni forma di neo-colonialismo politico o culturale, che cercasse di imporre un sistema che funziona in ben altre condizioni di economia, politica e storia. In altre parole, non proponiamo nessun sistema politico o costituzionale come il migliore in assoluto. Tuttavia, in termini generali, riteniamo che gli ideali democratici meglio garantiscono la partecipazione dei cittadini al processo politico, e meglio assicurano la necessaria corresponsabilità nel destino del proprio Paese.

4° principio. A livello di relazioni internazionali, sosteniamo gli sforzi della diplomazia multilaterale e il rispetto del diritto interna-zionale. Dal nostro punto di vista, come avviene per i singoli, anche le relazioni tra gli Stati devono essere regolate da giustizia, solidarietà, uso della ragione, leggi giuste; e non dalla violenza, dalla forza, dalle intimida-zioni e dalle pressioni.

Questo è il motivo per il quale la Santa Sede ha sempre sostenuto il ruolo dell’ONU. Ed è per questo motivo che i Papi hanno sempre fatto visita all’ONU. Ovviamente l’ONU lo intendiamo non come un centro burocratico-amministrativo, ma come un centro morale, dove tutti i Paesi e tutti i Popoli del mondo sviluppano la consapevolezza di costituire come una grande famiglia, la Famiglia delle Nazioni. E ciò richiede rispetto, fiducia, sostegno reciproco, specialmente per i Paesi più poveri e più deboli, analogamente a ciò che avviene in una famiglia.

5° principio. Alla luce di tutto ciò, riteniamo che la guerra non costituisce una soluzione per i conflitti, che purtroppo emergono sulla scena internazionale con regolare periodicità. La guerra andrebbe sempre evitata e scongiurata, perché la violenza è ripetitrice di violenza. Basta ricordare ciò che disse Papa Benedetto XV per scongiurare la prima Guerra Mondiale; l’appello di Pio XII: ‘Con la pace niente è perduto, con la guerra tutto può esserlo’ (Radiomessaggio del 24 agosto 1939); il grido accorato di Paolo VI davanti alle Nazioni Unite (4 ottobre 1965): “Jamais plus la guerre, jamais plus la guerre!”; e gli interventi di Giovanni Paolo II prima del conflitto in Iraq, con i suoi diversi richiami a far prevalere i pourparler diplomatici piuttosto che il ricorso alla guerra. Circa Papa Francesco, dirò tra breve.

In altre parole, crediamo nella forza e nella possibilità del dialogo e del negoziato, e proponiamo che bisogna sempre fare tutto il possibile per giungere ad una piena riconciliazione tra le parti in conflitto, attraverso opportune vie diplomatiche.

Perciò condanniamo il terrorismo e ogni forma di violenza che venisse esercitata per far valere i propri diritti. Per casi eccezionali, quando proprio fosse inevitabile il ricorso alle armi, per adempiere il dovere di proteggere lo Stato o la Comunità Internazionale (diritto di difesa), diciamo che questo uso della forza deve essere ben definito e limitato da specifici criteri umanitari. E ciò per evitare - tanto per essere chiari - gli abusi e i crimini che in epoca recente si sono avuti anche in Europa, e anche in Croazia e nei Paesi vicini.

In termini positivi, crediamo nella necessità di promuovere sempre - a livello preventivo - le condizioni necessarie per una pace giusta e per una solidale armonia sociale e internazionale. In altre parole, una pace che non significa solo assenza di guerra, ma un insieme di condizioni positive, che garantiscano ai singoli, alle comunità e agli Stati, di esprimersi e svilupparsi con serenità, nel rispetto della dignità della persona umana, in armonia con gli altri, con relazioni ispirate a criteri di giustizia e di solidarietà.     
                
6° principio. Promuoviamo una cultura che privilegi il dialogo, come base e fondamento delle relazioni sociali ed internazionali. A questo riguardo, le chiare indicazioni del recente magistero pontificio hanno trovato in Papa Francesco un convinto e tenace assertore.

Per quanto riguarda le relazioni internazionali, basta menzionare ciò che egli ha detto al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il 13 gennaio scorso: “Ovunque la via per risolvere le problematiche aperte deve essere quella diplomatica del dialogo. È la strada maestra già indicata con lucida chiarezza dal Papa Benedetto XV, allorché invitava i responsabili delle Nazioni europee a far prevalere «la forza morale del diritto» su quella «materiale delle armi», per porre fine a quella «inutile strage» (cfr. Benedetto XV, Lettera ai Capi dei Popoli belligeranti [1 agosto 1917]: AAS 9 [1917], 421-423), che è stata la Prima Guerra Mondiale, di cui quest’anno ricorre il centenario”.

Accanto a ciò, Papa Francesco ripete spesso che per la Chiesa è prioritario un “cammino di dialogo” in tutte le sue relazioni e in tutte le sue attività. Così per esempio, nell’Evangelii Gaudium al n. 238 egli scrive testualmente: “Per la Chiesa, in questo tempo ci sono in modo particolare tre ambiti di dialogo nei quali deve essere presente, per adempiere un servizio in favore del pieno sviluppo dell’essere umano e perseguire il bene comune: il dialogo con gli Stati, con la società - che comprende il dialogo con le culture e le scienze - e quello con altri credenti che non fanno parte della Chiesa cattolica“. In altre parole, il Papa è convinto che è necessario seguire sempre la via di un dialogo costruttivo, con tutti. E invita incessantemente le comunità cristiane ad essere sempre luoghi di accoglienza, di confronto aperto e pacato, dalle porte aperte, operatrici di riconciliazione, di pace, della cultura dell'incontro; senza ovviamente prescindere dalla fedeltà alla specifica identità della Chiesa. Così pure, egli precisa:“La Chiesa non dispone di soluzioni per tutte le questioni particolari; tuttavia, insieme con le diverse forze sociali, accompagna le proposte che meglio possono rispondere alla dignità della persona umana e al bene comune” (Ev. G. 241).

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Questi sono i principi più importanti che ispirano l’azione diplomatica della Santa Sede. Questi principi hanno guidato e guidano la diplomazia pontificia anche in Croazia.

Come sapete, il riconoscimento dell’indipendenza da parte della Santa Sede avvenne 13 gennaio 1992. I rapporti diplomatici furono stabiliti l’8 febbraio successivo e, dopo qualche settimana, il 29 febbraio fu nominato il primo Nunzio Apostolico. Qui mi pare opportuno fare una precisazione. Spesso si dice che la Santa Sede è stata il primo soggetto di diritto internazionale a riconoscere la Croazia. Ciò non è esatto, perché il primo a riconoscerla - nel 1991 - fu la Slovenia, che fu seguita dall’Islanda, dalla Lituania, dall’Irlanda e dalla Germania. Il riconoscimento della Santa Sede venne agli inizi del 1992, due giorni prima di quel famoso 15 gennaio 1992, allorché gli altri Paesi membri della Comunità Europea riconobbero l’indipendenza della Croazia.

Erano anni difficili, quelli che erano seguiti al crollo del muro di Berlino (9 novembre 1989). L’Occidente, innanzitutto quell’europeo, viveva quegli anni con atteggiamenti diversi. La prima reazione era stata l’euforia per la caduta del comunismo; ma c’era anche tanta incertezza per il futuro. Come tutte le grandi e rapide trasformazioni, il travaglio verso nuovi assetti politici, economici e umani, rimaneva lungo e difficile. E difatti ciò che accadde in Croazia lo dimostra. Qui, dopo la gioia suscitata dalla vittoria dei partiti politici non comunisti alle elezioni del 1990, era venuta tanta resistenza ai cambiamenti, fino alla guerra che si protrasse fino al 1995, con tanti lutti e distruzioni.

Che Giovanni Paolo II (il Papa di quel periodo) avesse una particolare attenzione per il popolo croato, lo dimostrano le tre Visite Pastorali da lui compiute, e i numerosi interventi a livello pastorale e diplomatico. Ma dev’essere chiaro che, riconoscendo Croazia e Slovenia - i cui popoli avevano fatto democraticamente la scelta dell’indipendenza, secondo quanto consentito dalla Costituzione della Jugoslavia del 1974 - il Papa ha sempre precisato che tale riconoscimento non era diretto contro nessuno. Piuttosto, davanti al triste spettacolo dei combattimenti, Giovanni Paolo II pensò che il riconoscimento internazionale delle due Repubbliche avrebbe potuto porre fine al conflitto armato. Perciò, dando precise istruzioni al suo Segretario di Stato, egli chiese che ogni iniziativa fosse accompagnata da una precisazione: il riconoscimento delle nuove Repubbliche da parte della Santa Sede era pensato non par allargare le ostilità, ma per fermarle.

Tra l’altro - dinanzi alle incertezze della Comunità internazionale - il 26 novembre 1991, il Card. Sodano convocò gli Ambasciatori della CSCE, consegnando loro un Memorandum, che richiamava alcuni principi del diritto internazionale, e in particolare l’ottavo principio dell’Atto finale di Helsinki: “Uguaglianza dei diritti e autodeterminazione dei popoli”; nonché il decimo principio, riguardante l’adempimento in buona fede degli obblighi derivanti dal diritto internazionale. Per la Santa Sede - il Cardinale fu molto chiaro - era essenziale che il riconoscimento delle due Repubbliche avvenisse in modo coordinato  e che fosse condizionato ai dieci principi dell’Atto di Helsinki.

Il Cardinale sottolineò anche il dovere delle nuove Repubbliche indipendenti di rispettare i diritti umani fondamentali e la democrazia, e di assicurare la protezione delle minoranze nazionali secondo i principi della CSCE. E così la Santa Sede chiese, con Nota del 20 dicembre 1991, d’inserire nel riconoscimento una clausola, secondo la quale la nuova Repubblica di Croazia doveva accettare la verifica da parte del Comitato degli Alti Funzionari della CSCE delle norme sulle minoranze nazionali.

Nei giorni scorsi, in occasione della canonizzazione di Giovanni Paolo II, abbiamo ascoltato e letto molti approfondimenti sul ruolo che egli ebbe nella costruzione di una nuova realtà europea “a due polmoni” - come ripeteva spesso - e in particolare nel processo d’indipendenza della Croazia. Qui mi consentirete di aggiungere una personale testimonianza, perché ho avuto l’onore di conoscerlo da vicino, e in quegli anni ero prima a Roma e poi a Varsavia, nella sua amatissima patria. Ebbene, quando ero in servizio a Roma (fino al 1992) e quando ero in Polonia (fino al 1999), lo sentii molte volte esprimere la sua amarezza e la sua preoccupazione per ciò che stava succedendo qui, in Croazia e nei Paesi vicini, alla fine del ventesimo secolo, in piena Europa. Perciò non esitò a levare incessantemente la sua voce, per richiamare l’attenzione del mondo e dei responsabili della Comunità internazionale. Per questo motivo, sentì suo dovere attivare le risorse migliori della diplomazia pontificia, affinché la voce del Papa avesse l’eco sperata. E, come ben sapete, si fece premura di seguire personalmente gli interventi degli organismi caritativi cattolici, affinché la vicinanza spirituale si traducesse anche in iniziative e gesti concreti di solidarietà. In breve, potrei dire che egli univa in maniera esemplare la sensibilità slava della sua origine polacca, con la responsabilità di Supremo Pastore della Chiesa Cattolica.

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Un altro elemento mi pare importante sottolineare. I rapporti stretti e cordiali della Santa Sede con il popolo croato hanno una storia plurisecolare. Come ho menzionato, già nel lontano 879 - oltre undici secoli orsono - Papa Giovanni VIII, in una lettera indirizzata al Principe Branimir, l’informava di aver elevato preghiere al Signore affinché “principatum terrenum, quem habes, prospere et securiter regere possis” (affinché il principato terreno che possiedi, tu lo possa dirigere in un modo sicuro e prospero). Questo gesto di Papa Giovanni VIII è considerato come il primo riconoscimento interna-zionale della Croazia, perché il riconoscimento del Papa - che allora era la più alta autorità ecclesiale e politica - era qualcosa di simile all’odierna ammissione nelle Nazioni Unite. Inoltre, sono ben documentati anche contatti anteriori tra la Sede Apostolica e la terra croata, fin dai tempi di San Paolo (2 Tim. 4,10).

Questi forti legami tra la Croazia e la Santa Sede non sono venuti meno attraverso i secoli, ed hanno ispirato le relazioni intercorse dal 1992 ad oggi.

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Segno tangibile delle eccellenti relazioni che intercorrono tra Croazia e la Santa Sede, sono i quattro Accordi firmati e ratificati tra il 19 dicembre 1996 e il 14 dicembre 1998. Il primo riguarda le questioni giuridiche; il secondo la collaborazione in campo educativo e culturale; il terzo l’assistenza ai fedeli cattolici membri delle Forze armate e della Polizia; il quarto questioni economiche.

L’idea di questi Accordi nacque subito dopo l’indipendenza della Croazia, perché da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche si vedeva la necessità di affrontare di comune intesa questioni pendenti nei rapporti tra Chiesa e Stato, che non erano state risolte né al tempo della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslava (1945-1991) né al tempo del Regno degli Sloveni, Croati e Serbi (1918-1929) e né al tempo del Regno di Jugoslavia (1929-1940). Inoltre, stava maturando sempre più la consapevolezza della necessità di affrontare in modo sistematico le relazioni Chiesa-Stato, in un quadro giuridico chiaro e stabile, in maniera simile a quella di altri Paesi democratici, che si possono paragonare alla Croazia per cultura, storia e composizione religiosa.

A distanza di diciotto anni dalla firma dei primi tre Accordi e di sedici di quello dell’Accordo sulle questioni economiche, si può affermare che la loro applicazione è stata sostanzialmente positiva. L’Accordo che tuttora richiede una maggiore applicazione è quello sulle questioni economiche, per ciò che riguarda i beni confiscati durante il regime comunista jugoslavo.

A riguardo di quest’ultimo Accordo, vorrei fare qualche osservazione circa il supporto finanziario che la Repubblica di Croazia assicura alla Chiesa Cattolica. In primo luogo, com’è detto all’articolo 6 par. 1, il motivo di tale sostegno finanziario è da ricercare nel contributo che la Chiesa cattolica dà alla promozione del bene comune, che lo Stato riconosce come “valore di utilità sociale … a servizio dei cittadini, nel campo culturale, educativo, sociale e etico”. In secondo luogo, vorrei chiarire che - contrariamente a quanto si legge spesso nei media - la somma versata annualmente - stando ai dati dell’anno 2012, che ho potuto verificare - è dello 0,21% del bilancio annuale della Repubblica. Infine, mi è caro rilevare che analogo contributo è assicurato anche alle altre denominazioni religiose. In questo senso, si può affermare che gli Accordi tra la Santa Sede e la Croazia hanno avuto benefici effetti anche per esse. E ciò riguarda non solo il campo economico, ma anche quello giuridico, giacché in questi anni sono stati firmati Accordi con 17 denominazioni religiose.

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Consentitemi infine di menzionare brevemente anche un ultimo importante argomento. In questo contesto di plurisecolari e consolidate relazioni con il popolo croato, e nella visione dell’Europa a due polmoni  - di cui ho parlato pocanzi - non può meravigliare l’appoggio incondizionato che la Santa Sede ha dato al processo di integrazione europea della Croazia.

Dal nostro punto di vista, la Croazia - per la sua storia e la sua collocazione geografica - è sempre stata parte della civiltà europea. In questa prospettiva, l’Arcivescovo Dominique Mamberti - il nostro “Ministro degli Esteri” (Segretario per i Rapporti con gli Stati) - il 30 giugno 2013, alla vigilia dell’entrata della Croazia nell’Unione Europea, dichiarò pubblic-amente che rendeva grazie a Dio “per un traguardo rimarchevole nella storia della Nazione croata” (Omelia alla chiesa di San Girolamo dei Croati, in Roma). Tuttavia, egli affermò che questo traguardo non doveva essere considerato come un punto di arrivo, ma come un punto di partenza per una nuova missione: “Questo vuole dire un impegno ancora più intenso nella costruzione della casa comune che è il nostro continente ... vedendo in essa non soltanto l’opportunità per il progresso e la prosperità della propria patria, ma anche per la costruzione dell’Europa come una casa comune di popoli di pari dignità”. E poi aggiunse: “Se un compito ha oggi la Croazia, se c’è un impegno oggi che possiamo consegnare con fiducia al popolo croato, è quello di ravvivare in Europa la consapevolezza delle radici cristiane, mediante la testimonianza di valori di cui essa stessa è portatrice”.

Perciò, guardando al futuro europeo della Croazia, il nostro augurio è che, come altre Nazioni di solida tradizione cristiana, essa possa offrire all’Europa, uno specifico contributo di valori spirituali e morali; e cioè, di quei valori che hanno plasmato per secoli l’identità personale e nazionale dei suoi figli.

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Grazie per l’attenzione. Resto a disposizione per eventuali chiarimenti che fossero necessari. Grazie!  



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